Battaglia dell'Isola Ramree

Battaglia dell'Isola Ramree
parte della seconda guerra mondiale
Truppe britanniche si preparano a sbarcare sull'Isola Ramree
DataGennaio - febbraio 1945
LuogoIsola Ramree
EsitoVittoria alleata
Schieramenti
Comandanti
Effettivi
Perdite
Sconosciute500 morti (secondo alcune fonti solo 20 superstiti)
20 catturati
Non si sa con precisione quanti giapponesi siano stati uccisi dalle truppe britanniche; si presume che la maggior parte delle perdite giapponesi siano state causate da malattie tropicali, fame e, in qualche caso, dagli attacchi dei coccodrilli.
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La battaglia dell'Isola Ramree è stata un episodio della seconda guerra mondiale che si combatté per sei settimane nei mesi di gennaio e febbraio 1945, nel contesto dell'offensiva del British Indian Army del 1944-1945 lungo il fronte meridionale, durante la Campagna della Birmania. L'isola Ramree si trova al largo delle coste birmane e nel 1942 l'Esercito imperiale giapponese, avanzando rapidamente, conquistò l'isola insieme al resto della Birmania meridionale. Nel gennaio 1945 gli Alleati lanciarono un attacco per riconquistare Ramree e la vicina isola Cheduba, con l'intenzione di stabilirvi una base aeronavale. La guarnigione giapponese di Ramree era costituita dal 121º Reggimento di fanteria, parte della 54ª Divisione. Il comandante del reggimento era il colonnello Kanichi Nagazawa.[1]

La battaglia è associata ai resoconti che raccontano di molti soldati giapponesi mangiati dalle migliaia di coccodrilli marini presenti nelle paludi dell'entroterra. Nonostante l'episodio sia ormai considerato una leggenda non plausibile dagli storici, il Guinness Book of World Records ha elencato l'episodio come "Peggior disastro al mondo avvenuto a causa di coccodrilli"[2] e come "Maggior numero di vittime in un attacco di coccodrilli".[3]

  1. ^ Louis Allen, Burma: the Longest War, Dent Paperbacks, 1984, p. 513, ISBN 0-460-02474-4.
  2. ^ Alan Russell (a cura di), The Guinness Book of Records 1988, Guinness Books, 1987, p. 216, ISBN 0-85112-873-4.
  3. ^ Nick Kynaston (a cura di), The Guinness 1999 Book of Records, Guinness Publishing, 1998, p. 135, ISBN 0-85112-070-9.

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